La collezione d'Arte
A cura di Matteo Gardonio
ATTUALE OTTOCENTO
PER UN PERCORSO DELLA COLLEZIONE
Le collezioni d’arte dedicate all’Ottocento in Italia, difficilmente si sono prefissate un obiettivo programmatico. Da un lato la sfortuna critica e dall’altro quella commerciale dei primi Novecento, hanno decretato una sostanziale assenza di interesse, con praterie enormi che, in fin dei conti, hanno a loro volta permesso ad alcuni collezionisti di definire il gusto italiano in tale ambito.
Ci si riferisce in particolare alla collezione Marzotto, contraddistinta indubbiamente da capolavori, ma che ha – purtroppo – segnato profondamente un gusto collezionistico monodirezionale, vale a dire il grande successo dei macchiaioli e degli italiani a Parigi della prima generazione (Boldini, De Nittis, Zandomeneghi e qualcosa dei Palizzi, grazie all’interesse di De Chirico che li amava). Un vero peccato, poiché sono rimasti irrimediabilmente fuori tutti quei pittori che, mano a mano, sono stati poi riscoperti in anni recenti: da Detti a Rossano, da Balestrieri a Caputo, da Berti a Scoppetta.
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Matteo Gardonio
C’è chi ha scelto dei dipinti pensando a un concetto di metapittura nell’Ottocento, vale a dire con richiami ad altri pittori o altre opere citate all’interno di un’opera pittorica, chi ha scelto una figurazione al limite dell’astrattismo, chi solo autoritratti e chi, come nel caso della collezione Chemax Art, senza negare l’ineludibile asse Francia-Italia, crede che in quella capitale dell’arte, gli italiani si battevano o semplicemente vivevano con un concetto diverso rispetto e all’impressionismo e al realismo. Sono approcci moderni, contemporanei e che paradossalmente rendono ancora più affascinante l’arte di quel secolo, senza una pesantezza retorica a cui siamo abituati. Che dire, infatti, di un Boldini che nel 1873 sceglie, in un momento di pausa dalle grinfie del mercante Goupil, di realizzare opere nel verde? O ancora, le passanti immortalate da De Nittis e Zandomeneghi senza badare troppo a Degas? O ancora, un pittore come Corcos che ritrae il collega Comerre in un momento di pausa e al contempo di distacco dai pensieri quotidiani? Sono boccate d’ossigeno da un impegno costante che forse, se da un lato li ha resi meno protagonisti dei colleghi d’oltralpe, hanno avuto proprio il merito di rendere “italiana” quella pittura. Come un’attitudine.
Sono gli stessi binari su cui si muove la musica e la composizione di Giuseppe Verdi: magnifica da un lato, ma che rischia “l’effetto fanfara” o “banda del paese” se interpretata senza un certo trasporto emotivo.
La scuderia Goupil, da pochi anni omaggiata in una bella mostra e analizzata più in profondità, ha dimostrato che alcuni artisti italiani hanno spinto al loro massimo certe note, riuscendo anche a realizzare in taluni casi dei capolavori; ciò che si riscontra nella presente collezione.
Ma sono altri due i nodi su cui si fonda la collezione della Chemax Art.
Il secondo è legato ad un’Italia che fu, ad un’Italia remota. E che probabilmente si può ancora ritrovare. L’impressione è quella di essere trasportati da Sud a Nord o viceversa come in un reportage di Mario Soldati o di un Pier Paolo Pasolini, dentro una nazione periferica, di estrema povertà, analfabeta ma dove la genuinità del vivere la fa da padrona; anche nella sua durezza. È come unire, in un unico file rouge, Giovanni Verga a Mauro Corona.
Non stupisce, dunque, trovare una lezione in paese che viene ricompensata con il baratto degli effetti domestici, o un bacio tra fanciulli che replicano senza consapevolezza gli schemi degli adulti, o un frate che piuttosto alticcio suona baldanzoso, o una bimba napoletana sorpresa o interrotta con i suoi giochi nientemeno che da Vincenzo Irolli. Pur sempre imbronciata, e per questo, per sempre immortalata dentro un capolavoro.
Anche qui le firme sono le più ricercate (Longoni, Michetti, Irolli, Mancini) ma anche le meno scontate (Bergamini, Bellei, Zampighi) dove si ha sempre l’impressione di aver coperto tutta la penisola con gusto, leggerezza e qualità insindacabili.
Il terzo elemento che contraddistingue la collezione è, però, a mio avviso il più affascinante ed esprime anche l’uomo che l’ha creata e la continua a creare, con una pars construens ed una destruens.
L’idea è quella che, paradossalmente, l’arte dell’Ottocento sia dinamica quanto lo siamo noi in questo momento. Un dinamismo tutto sommato dettato non solo dal positivismo ma anche da quell’intimismo ed esistenzialismo che già li, in quel momento, gettava le basi. Come se fossimo ancora figli di quel secolo. Una qualità creativa e visiva che oggi realizziamo con sistemi software sino allo spasimo e che quei pittori tentavano con un virtuosismo più manuale che mentale. Certo, ci fa sorridere riguardare oggi pellicole in bianco e nero con effetti speciali, ma ne avvertiamo l’importanza; ci fa sorridere guardare ai primi telefoni cellulari, ma ne capiamo i passi fondamentali per il progresso comunicativo. L’arte di quel secolo, oggi, non ci fa più solo sorridere. Finalmente, grazie a collezionisti così illuminati, ne capiamo l’importanza.
Possiamo anche ammettere un dato che molti studiosi accettano a fatica: le capitali finanziarie sono le capitali dell’arte. Parigi lo era stata, New York lo è stata, Milano lo è. In questa dimensione, in una città divenuta cuore pulsante non solo per l’Italia e l’Europa, l’Ottocento ritorna prepotente e la vecchia Milano dei grandi pittori lombardi rivive in alcune opere che paiono messaggi da un’altra dimensione: quel tram esiste ancora, quel naviglio esiste ancora e, soprattutto, quell’aprirsi al mondo tipico della mentalità meneghina, esiste ancora. La collezione della Chemax Art in quella direzione guarda; un passato proiettato nel futuro.